Da piccolo mi sono sentito spesso dire una frase che suonava pressappoco così:
Non lamentarti: tu hai tutto, pensa a chi non ha nulla.
All’epoca poteva sembrarmi una frase ingiusta, persino assurda: come avrei potuto immaginare la sofferenza imperante in un mondo che, per me, assomigliava a un paradiso, mentre per la maggior parte delle persone era un inferno?
La mia famiglia non era ricca, anzi, faticava parecchio per sbarcare il lunario, tirando spesso la cinghia, come si suol dire. Eppure lo riconosco, avevo molto di più di quello cui aveva accesso il resto del mondo.
Nacqui durante la guerra fredda, nell’anno dell’omicidio di Moro e dell’avvento di papa Wojtyla, in mezzo a forti tensioni sociali e all’alba di quel periodo culturalmente deleterio che coincise con gli anni ’80.
Mentre in occidente veniva concesso ai popoli un breve periodo di crescita economica e di ipnosi commercial-televisiva, milioni di persone vivevano schiacciate dalle necessità della parte fortunata del mondo, dalle sue dinamiche di potere, dalla sua sete di dominio.
Facciamo adesso un salto temporale in avanti di 40 anni e planiamo sul nostro presente. Oggi non tutti i bambini hanno la possibilità di ascoltare la frase di cui sopra dai propri genitori, anzi, l’insegnamento che io vedo dilagare nella nostra società è quello del “puoi se vuoi” e della “crescita infinita”. Due postulati che sono, per me, evidenti assurdità.
Se vuoi, puoi: nei sei certo?
Cominciamo con “puoi se vuoi”: no, non posso tutto, anche se lo vorrei.
La vita sembra essere un enorme slalom gigante, colmo di ostacoli sempre più difficili da superare e in cui la mia volontà di arrivare al traguardo è subordinata sia alla situazione storica contingente che alle mie caratteristiche congenite.
Trovo che sia molto semplice asserire di potere, qualora lo si volesse con forza, qui da noi; ma proviamo a pensare a un bambino nato ad Aleppo qualche anno fa: da grande potrà davvero scegliere la vita che vorrà? O potrà sceglierne una solamente all’interno di un range del possibile prestabilito?
Immaginiamo un cambogiano nato sotto il governo criminale di Pol Pot, o un abitante delle favelas brasiliane. Possono, loro, ciò che vogliono? Io credo proprio di no. Ma senza utilizzare esempi così estremi, ecco un esempio nostrano: io voglio, da sempre, essere un musicista straordinario, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, ma non ho il talento necessario; come la mettiamo?
Questa credenza è figlia del nostro modo di concepire il tempo come una linea retta, linea che nasce in un momento preciso nel passato, da un atto creativo, e che finisce in un qualche punto del futuro: questa concezione è il chiaro frutto della nostra profonda cristianità. Così facendo eliminiamo dalle nostre coscienze l’antico concetto, in uso in tutte quelle società tradizionali che noi consideriamo “barbare”, della ciclicità del tempo. L’immagine del cerchio, o meglio, della spirale.
L’altro giorno ho sentito un uomo, in evidente stato di alienazione, sproloquiare a riguardo di riforme tecnologiche in fase di attuazione, in grado di non essere mai più smontate da nessun governo futuro. Riforme, beninteso, che non apporteranno NULLA di più alle nostre vite ma che, in compenso, ci porteranno a chiedere il permesso a qualcuno per poter fare ciò che oggi, invece, facciamo liberamente.
Cosa me ne faccio della possibilità di connettere il frigorifero a internet? A cosa mi serve comandare il condizionatore dall’automobile? Perché dovrei dire a voce alle luci di accendersi? Per quale astruso motivo dovrei demandare a un algoritmo la scelta della musica da ascoltare nel mio tempo libero?
Ci rendiamo conto di stare abdicando al nostro ruolo di liberi creatori o, qualora fossimo credenti, di figli di Dio? Ci rendiamo conto che, demandando all’esterno tutto ciò che è in nostro potere fare, finiremo per essere schiavi di quelle cose che adesso ci appaiono come comodità?
La comodità di avere TUTTI i nostri dati su un QR code, vale qualcosa di fronte alla possibilità che quel codice possa essere disattivato per costringerci a obbedire a un’autorità, contro il nostro interesse? Dici che sia impossibile? Guarda qui, allora.
Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile.
David Rousset, citato da Hannah Arendt ne “Le origini del totalitarismo”
Cosa ti manca, in questo preciso momento, per vivere una vita degna di essere vissuta? Il Bimby collegato alla rete per poter scaricare le ricette dal cloud?
Ti ricordi dei tuoi sogni della fanciullezza?
Sognavi di essere felice, o sognavi di possedere una smart tv? Desideravi la felicità, oppure di avere come interlocutore privilegiato delle tue solitudini, Alexa?
Perché cercare fuori di sé giocattoli demoniaci capaci di renderci inetti – e quindi schiavi – quando dovremmo essere qui per sviluppare i nostri talenti, per ascoltare la voce del daimon che ci chiama verso la nostra personale vocazione, sempre più forte?
Il mito della crescita infinita e quello del puoi se vuoi sono tra i maggiori responsabili della nostra involuzione, insieme alla pigrizia che, ormai, è endemica nella nostra specie. La pigrizia nel ricercare le informazioni, la pigrizia nel chiedere, nello studiare, nell’uscire dalla zona di comfort. Faremmo di tutto, pur di non impegnarci a vivere.
Svegliamoci, in fretta, prima che sia troppo tardi. I progetti di distruzione della nostra umanità sono già in atto, da tempo. È sufficiente leggere le idiozie che scrive Harari nei suoi libri o ascoltare i deliri transumanisti del world economic forum per capire che non abbiamo più tempo. È ora che ci svegliamo per provare a rigettare il progetto di un futuro terrificante, in cui l’essere umano sarà un mero ammasso di carne deficiente, circondato da attrezzature intelligenti che lo solleveranno dalla – nefasta evidentemente – incombenza del pensare.
Se ci fosse un uomo…
Allora si potrebbe immaginare
Un umanesimo nuovo
Con la speranza di veder morire
Questo nostro medioevo.
Col desiderio
Che in una terra sconosciuta
Ci sia di nuovo l’uomo
Al centro della vita.
Allora si potrebbe immaginare
Un neo rinascimento
Un individuo tutto da inventare
In continuo movimento.
Con la certezza
Che in un futuro non lontano
Al centro della vita
Ci sia di nuovo l’uomo.
Un uomo affascinato
Da uno spazio vuoto
Che va ancora popolato.
Popolato da corpi e da anime gioiose
Che sanno entrare di slancio
Nel cuore delle cose.
Popolato di fervore
E di gente innamorata
Ma che crede all’amore
Come una cosa concreta.
Popolato da un uomo
Che ha scelto il suo cammino
Senza gesti clamorosi
Per sentirsi qualcuno.
Popolato da chi vive
Senza alcuna ipocrisia
Col rispetto di se stesso
E della propria pulizia.
Uno spazio vuoto
Che va ancora popolato.
Popolato da un uomo talmente vero
Che non ha la presunzione
Di abbracciare il mondo intero.
Popolato da chi crede
Nell’individualismo
Ma combatte con forza
Qualsiasi forma di egoismo.
Popolato da chi odia il potere
E i suoi eccessi
Ma che apprezza
Un potere esercitato su se stessi.
Giorgio Gaber
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Credo che mi manchi il coraggio di essere davvero felice…
Io penso che il coraggio sorga laddove si smetta di accettare il mondo, (e il modo), in cui viviamo; allora non ci restano che due scelte: combattere per il nostro diritto ad essere felici, o soccombere.
Cosa ci manca?
Ci manca la sensibilità, ci manca l'umiltà , ci manca vivere appieno ogni gesto, ogni pensiero, ogni silenzio. Puntiamo il dito su ogni cosa invece di cogliere l'occasione per cambiare prospettiva... magari non cambieremo idea ma, per lo meno, avremo visto qualcosa da un'altra angolazione e questo potrebbe essere un'inizio di revisione di noi stessi. Siamo meravigliosamente esseri imperfetti e questo ci rende speciali. Cosa ci manca? Essere umani.....
Grazie, Alberto; credo che un cambio di prospettiva sia urgente, oggi.